sabato 25 agosto 2012

Orange

Carote.
Tante carote.
Innumerevoli carote.

Vedo un mondo arancione, la cosa non mi sfagiola: non amo particolarmente quel colore. A volte mi chiedo se sia una sorta di partito preso sin da quando ero bambino e volevo a tutti i costi che il blu, mio preferito, stesse bene con tutti; con l'arancione però no, non ci va proprio d'accordo.
Ultimamente mangio troppe carote, ebbene sì, da quando ho letto su internet che aiutano a sviluppare le capacità mnemoniche ho deciso di farne indigestione; se non altro ho perlomeno l'impressione di star facendo qualcosa di utile in vista della prova che mi aspetta tra qualche giorno; questo tentativo sarà fondamentale per la mia vita lavorativa, per la mia formazione professionale e umana, per sentirmi in pace e orgoglioso di me stesso una volta tanto.
Non che non mi senta capace, so di esserlo, ma inavvertitamente finisco per essere pessimista perché so, inconsciamente, che se riceverò una delusione, incasserò più facilmente il colpo senza tanti sforzi.

Da sempre non faccio altro che porre il mio futuro concreto davanti a qualsiasi altra cosa, tutto risulta essere secondario è più fragile, mai in grado di darmi quella solidità che una professione affermata, specialmente in tempi bui come questi, potrebbe assicurarmi.
Ed è così che, senza neanche pensarci troppo, ho rinunciato ad una stabilità emotiva e ad una felicità già assicurata per andare a porre i mattoni del mio grattacielo in altri lidi, lontani, dove non ho comunque avuto difficoltà a provare ancora quella felicità alla quale credevo di aver rinunciato.
L'incognita riguarda il potenziale rischio che tutto ciò che mi ritrovo a fare ora possa un giorno risultare vano.

Romanticismo "de sto cazzo" a parte, non sono realmente nel pieno delle forze, né delle mie facoltà mentali per tirare le somme, specialmente quando l'ispirazione sopraggiunge alle 2:30 della notte, come una zanzara svolazzante intorno al mio orecchio, venuta apposta per tormentare i miei sonni tranquilli.
In tutto ciò, me la sto facendo addosso.

sabato 11 agosto 2012

Sourire

Lavorare alla reception è una mansione non troppo difficile che, secondo le varie angolature, può riscoprirsi tanto interessante; le conoscenze informatiche e un uso attento dei programmi amministrativi che, per dispetto, continuano a disconnettersi ogni trenta minuti, sono fondamentali e, sfortunatamente, coincidono con la parte più noiosa e ripetitiva, ma il bagaglio umano e linguistico che può sorgere da tutto ciò che è complementare alla parte burocratica, se spolverato con la giusta dose di creatività, può diventare davvero enorme.
Decine di persone varcano ogni giorno quella porta a vetri, impiegando dai 20 ai 30 secondi in media per capire come aprirla, mentre io mi sbraccio per cercare di aiutarli a comprendere prima che suonino quel maledetto ed irritante campanello che mi innervosisce incredibilmente, il tutto finché alzarmi ed andare di persona ad aprire la porta resta l'unica soluzione.

La parte che segue è una di quelle più interessanti e, a seconda dell'umore, difficili: richiede enormi capacità di sforzo nello stirare i muscoli del viso e dipingerci su un sorriso; per quanto il cliente sia esigente, scorbutico, irritante o maleducato, bisogna essere capaci di mostrargli/le quanti più denti possibili e tanta sincerità attraverso gli occhi per tutto il tempo che il suddetto trascorre in reception anche a chiederci consigli  in merito a un'unghia spezzata.

Personalmente mi considero alquanto classista: normalmente gli asiatici sono i più tranquilli e, per quanto possano risultare pesanti sommergendo il malcapitato di richieste, trasmettono simpatia e tanta tenerezza, con le loro facce gonfie e con i sorrisi sinceri, mentre fanno del loro meglio per esprimersi in un inglese comprensibile, raramente hanno lamentele da sottomettere e, quando si sentono in dovere di complimentarsi o di ringraziare, lo fanno senza limiti. E' per questo motivo che, normalmente, i sorrisi più sinceri sono riservati a loro.
Il mio patriottismo è stato invece prosciugato dalle desertiche temperature granadine: mi ritrovo costantemente a partire prevenuto nei confronti degli italiani; mi "cagiona" vergogna il modo di porsi della maggior parte di loro, privi di qualsivoglia competenza linguistica, che pretendono di comunicare esclusivamente nella loro lingua, richiedendo implicitamente a chiunque lavori in quel momento uno sforzo maggiore per cercare di comunicare con loro.
Simile, benché non stesso, ragionamento è da farsi con gli anglofoni; è sorprendente come una minuscola percentuale tenti il tutto e per tutto comunicando nella lingua del posto, ma si tratta di uno 0,2%.
La stragrande maggioranza della categoria prende posizione e decide di non sforzarsi nemmeno nei saluti e/o nei ringraziamenti, dovuto probabilmente a quello sciovinismo imperante che sembrano che acquisiscano sin da piccoli tramite impianto di un chip nell'apposita zona del cervello. Normalmente la categoria più aperta sono gli australiani, sebbene molti americani "easygoing" si lascino andare altrettanto facilmente.

Il guaio si presenta quando le otto ore di turno in reception sono contrassegnate da un malumore costante, causato da una brutta giornata, una brutta notizia o, semplicemente, un risveglio con il piede sbagliato: a momenti qualche espressione scortese sfugge, qualche tono un po' più secco risuona, qualche sorriso risulta più falso del solito o non viene proprio fuori. Se a tutto ciò si aggiunge la telefonata del capo che, pur non avendo la minima idea del lavoro in reception, non avendolo mai sperimentato poiché passata rapidamente e misteriosamente da donna delle pulizie a direttrice (presumibilmente mediante apertura gambale), si sente in dovere di dare la sua decina di ordini quotidiani e di rimproverare senza una vera motivazione.

Qua le difficoltà nel non subire attimi di stress crescono, ma aiutano anche a reggere una pressione che forgia e, chissà, alla fine del turno, può essere gratificante, come riuscire a spiegare una mappa della città in un francese relativamente fluente senza commettere "trop de fautes".