mercoledì 31 ottobre 2012

I nuovi Platinette

Una delle principali caratteristiche del mondo omosessuale maschile che, da sempre, attira la mia attenzione durante il mio vagare in cerca di pettegolezzi -o semplicemente per noia- nei social network, è la tendenza ad intercalare tra nome e cognome un soprannome che, nel 90% dei casi, non lascia dubbi riguardo all'orientamento sessuale del soggetto descritto; nei casi estremi, si giunge persino a sostituire i propri appellativi con i nomi fittizi.
Per quanto si tratti di un fenomeno palese agli occhi di tutti, non mi è mai capitato di leggere nulla a riguardo, e dato che internet è il posto nel quale, attualmente, l'ironia regna sovrana, supponevo che prima o poi qualcuno dovesse colmare questa lacuna.


Uno degli espedienti più comuni è, da sempre, sostituire il proprio cognome con quello del proprio artista preferito, che sia reale o d'arte non importa: è essenziale che la totalità degli utenti di Facebook, Twitter, Tumblr, ecc. ecc. possa assistere alla devozione dell'utente per l'artista. I gay non sono da meno: come da stereotipo, una buona maggioranza si crogiola tra le note e il beat del popolarissimo "Puttan Pop", probabilmente perché racconta di rispetto, uguaglianza e amore per sé stessi con una ferocia tutta femminile di ragazze che cessano di esserlo per indossare la maschera di popolarissimi personaggi in grado di sbancare qualsiasi botteghino e creare ondate sonore a ultravioletti tra un gridolino e l'altro dei fan che, in discoteca, riconoscono alcune tra le loro canzoni più popolari entro le prime tre note. E' così che, sin dagli albori dell'enorme popolarità delle reti sociali, si è assistito ad un proliferare di nomi più o meno comuni accostati a un Germanotta, Ciccone, Del Rey, Spears, Perry e così via. Se la cavia soffre per i suoi sentimenti contrastanti nei confronti di più di un'artista le soluzioni sono semplici e molteplici: accostare più elementi insieme fino al raggiungimento di un cacofonico nome utente socialmente impegnato, è il caso di Aguilera Perry, Minaj Knowles eccetera. In altri casi, se si opta per cancellare qualsiasi dato anagrafico dall'intestazione principale e rimpiazzarlo con la propria "dea-bitch", si tende a scegliere un aggettivo, un nome proprio MASCHILE -per quanto di virilità in quei profili non ne resti la minima traccia- o qualsiasi altra parola dotata di senso compiuto -cosa alquanto discutibile- proveniente dalla hit o dall'album preferiti, nascono così: Alejandro Perry, Marco Hopeless Place -cognome-, Francesco Stripped e tanti altri.

Una menzione a parte meritano le drag queens, le quali possiedono due profili nella maggior parte dei casi: il primo identifica l'individuo che si nasconde dietro la parrucca, i chili di trucco e le gambe invidiate dalla più snella delle donne, ed eventualmente un secondo, quello dell'"artista" in grado di fare faville nei peggiori bar, di Caracas? Ma no! Della notte androgina! Il tutto con tanto di nome che spazia dall'ambito sessuale a quello dell'icona alla quale si ispirano, fino ad arrivare alla marca di vestiario che preferiscono, senza contare quelle che prendono spunto dai loro mascherati predecessori.

Mi dichiaro a favore della totale libertà d'espressione, però proprio per questo motivo, sentendomi libero di esprimermi, lo faccio ridendo a quattro ganasce assieme ad eventuali amici che abbiano notato la propagazione a macchia d'olio di questo movimento "slutty-goddess" che, guarda caso, riscuote la sua popolarità quasi esclusivamente in Italia, il bel paese delle piume di struzzo, delle borse griffate e del tacco 12 che non costituiscono più una prerogativa femminile da ormai qualche anno.


lunedì 29 ottobre 2012

Thrill, shiver, shudder

I brividi sono la massima aspirazione quando si ricerca un'emozione forte per sentirsi completi, per far trascorrere più velocemente un attimo, per sradicare dalla propria mente i pensieri più sgradevoli quando non vogliamo proprio saperne di loro.
La natura del brivido, non sempre direttamente proporzionale alla sua entità, è sempre soggettiva e sottomessa alle personalità, ai gusti ed agli umori. Ciò che c'è di certo è che non si può scindere il brivido dall'emozione; se si pensa anche ad una delle sensazioni più comuni: il freddo, questa ci pone in una situazione sgradevole che ci istiga a coprirci e a desiderare ardentemente di stare al calduccio sotto le coperte o davanti ad un camino acceso. Per quanto la sua natura sia prevalentemente fisica, il brivido di freddo risveglia l'istinto primordiale della ricerca del caldo e, di conseguenza, il desiderio che ci proietta verso quest'ultimo. L'emozione è dunque la conseguenza dell'atto del rabbrividire, non la sua causa.

Considerando solo la naturale reazione alle basse temperature ci si dimostra, però, troppo superficiali e concreti, escludendo in questo modo tutti i fremiti di varia natura che, invece che essere determinati da una situazione reale e della quale si ha un'esperienza fisica, sono sottomessi agli stati d'animo, ai sentimenti, alle emozioni che una particolare condizione ci porta a sperimentare. E' opinione piuttosto comune, poiché probabilmente saremmo automi, cinici o misantropi se pensassimo il contrario, che i brividi legati alle sensazioni, siano molto più socialmente accettabili dato che, con le dovute eccezioni, corrispondono sempre a qualcosa di talmente positivo e piacevole che, se potessimo averne il controllo, sceglieremmo di rabbrividire a vita.

La paura è sicuramente l'eccezione più eclatante: la realtà del brivido di terrore è stata esasperata per anni, in particolare dalla letteratura e dal cinema; quante volte, sin da piccoli si assiste al nostro personaggio preferito rabbrividire visivamente perché spaventato da qualcosa? Nella realtà, parlo per me, sono state ben poche le volte in cui ho percepito un fremito dovuto al timore di qualcosa, capisco però che, probabilmente, si tratta di qualcosa di non assoluto e standard, bensì è possibile dipenda dalle caratteristiche della personalità di ognuno.

...e infine, il piacere. Si tratta di una categoria che andrebbe sviscerata in tutte le sue sfaccettature poiché si tratta di un concetto decisamente troppo esteso per essere descritto in poche righe; per quanto riguarda l'idea di piacere in grado di far rabbrividire sono necessari parecchi distinguo: il cibo, per quanto io provi un amore sconfinato ed incontrastato nei suoi confronti e mi crei una dipendenza ed un'assuefazione uniche nel loro genere no, il fremito non è contemplato nell'orgasmo delle papille gustative.
Per non sentirmi particolarmente in astinenza da quelle categorie di piacere che, normalmente, solleticano il connubio tra corpo e anima ritengo opportuno limitarmi ad elencarle senza approfondirle poiché non mi sento di esasperare la desolazione del lunedì (o martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato, domenica) trevigiano.
Basti pensare al contatto fisico quale il bacio, la carezza, l'abbraccio, il solletico, il grattino e, anche se farà sorridere, la palpatina nel punto giusto. Inoltre, ricollegandomi al discorso sulle temperature, chi è che non ama quella meravigliosa scarica che segue l'atto del provare finalmente il calore tanto desiderato, improvvisamente?

Avevo scritto "infine", bene, non avevo finito; come dimenticare la schiacciante e stupenda trasmessa da una canzone in combinazione con una situazione determinata, con la quale si incastra perfettamente e che le calza a pennello? Non importa che si tratti della nostra preferita, che sia grande e potente, che sia strappalacrime o che l'artista si squarci le corde vocali urlando con il fiato di venti persone messe insieme, quello che conta è l'insieme. Tutto il congiunto è perfetto, a patto che non venga decorato con gridolini ed esclamazioni a ultravioletti degne dei migliori acuti di Aretha Franklin che, in più di un caso, rovinano atmosfere, guastano risate e -e qui giunge il climax della mascolinità che credevo assopita in me- annullano qualsiasi erezione in atto, qualcosa che nemmeno le pillole più blu potranno mai restituire.

Fatemi un PIACERE, non RABBRIVIDITE per il disgusto di leggermi, piuttosto urlate fino a spaccare tutti i bicchieri che avete in casa, lo preferisco.


venerdì 26 ottobre 2012

Mi so trevisan

Treviso è la notte, il buio intenso, quello per il quale si prova un incontenibile, incontrollabile, intrinseco (e altri aggettivi che iniziano con "in") terrore. E' questa la sensazione da me sperimentata all'avvicinarsi del giorno del mio ritorno nella ridente cittadina dell'ala est della Pianura Padana.
E poi quel giorno è arrivato: eccola lì, lei con la sua umidità capace di penetrare qualsiasi osso, i suoi nugoli di zanzare, la sua desolazione, eppure il suo fascino; tolti i suoi infiniti difetti non sarebbe mica così male come città.
Sceso dall'aereo mi ritrovo a lanciare occhiatacce cariche d'odio alternate: una al sardo rude ed incapace di comportarsi decentemente in pubblico, l'altra alla veneta che mi offre un assaggio del suo orrendo e fastidioso dialetto mentre storce il naso davanti alla borsa, certamente non Prada, della donna davanti a lei, il tutto con frasi in italiano con quattro o cinque congiuntivi sbagliati ciascuna.
E' quest'ultima categoria che mi circonderà e mi minaccerà contro un muro per almeno otto mesi, ok, ormai sono sette, suvvia!
I suoi abitanti (o perlomeno quelli che ho avuto la sfortuna di conoscere io) sono il più grande difetto del capoluogo. Avevo sempre sentito varie generalizzazioni sul tipico norditaliano, sulla sua chiusura mentale, attribuita normalmente all'influenza della Lega Nord più forte di quanto si possa credere, sulla sua sorprendente abilità di palesare la propria ricchezza, superiore in tanti casi del normale ed onesto (leggi: non mafioso) comune cittadino del sud, il loro amore per le firme e per le pellicce le quali, nonostante io possa ritenere comprensibile il fatto che il clima sia un tantino più rigido avvicinandosi al Polo Nord, io interpreto solo ed esclusivamente un inutile sfoggio di un capo costoso, alla moda e particolarmente BRUTTO, sia per il macello di bestiole che ha presupposto, sia dal punto di vista estetico. Per quanto tante voci siano arrivate al mio orecchio, non mi piace basarmi sugli echi di corridoio: spesso e volentieri si sono dimostrati inaffidabili e falsi, preferisco di gran lunga basarmi sulle esperienze personali, tanto prima o poi tutti i nodi vengono al pettine.
Una volta tanto, però, le famose voci di corridoio si sono rivelate reali: i trevigiani, a qualunque categoria essi appartengano, sono una "razza" a sé con la quale io non posso, non riesco e non voglio andare d'accordo.
Lungi da me il generalizzare: so bene che non funziona ed odio le persone che lo fanno, ma spesso risulta tanto comodo, nelle descrizioni, categorizzare e fare di tutta l'erba un fascio, dopotutto, in tempi di crisi, diciamo tutti benvenuto al risparmio, sia esso di soldi, denaro o tempo.
In questa inutile cittadina sembra che tutto sia mirato alle apparenze: tutti (ma soprattutto tutte) vestono bene per andare a fare colazione al bar la domenica mattina, per andare dal medico, per fare la spesa, per portare a spasso i cani; la Louis Vuitton a cofanetto non manca mai, così come le Manolo tacco 12 ai piedi e il trucco impeccabile, persino nella signora che avanza lentamente ed a stento gettando tutto il proprio peso su un bastone senza il quale non riuscirebbe a muovere un passo. Ovvio, non è opportuno rinunciare allo stile per un paio di stupide protesi o per una serie di sedute dal fisioterapista quando se ne può fare tranquillamente a meno.

E' matematico (o almeno nella mente dei trevigiani risulta esserlo) che il far finta di avere stile porti con sé un sentimento di superiorità innegabile ed imprescindibile, che a sua volta conduce alle occhiatacce di disprezzo malcelato (o non celato proprio) nei confronti delle seguenti categorie:

-stranieri, che siano regolari o meno poco importa, rubano il lavoro agli italiani anche se l'italiano in questione è un becero contadino che non ha mai fatto nulla nella sua vita mentre lo straniero vanta lauree, master e decine di esperienze lavorative;

-omosessuali, "Scherziamo? Io vado in chiesa e prego tutte le domeniche assieme a mio marito che mi cornifica con la segretaria, mio figlio teppista e mia figlia sciacquetta: siamo pur sempre il perfetto esempio di famiglia "normale";

-"terroni", aggettivo dalla dubbia definizione che, in origine, identificherebbe qualunque abitante di una zona al di sotto del corso del fiume Po, eccezion fatta per qualsiasi regione nella quale il Padano DOC trascorre le vacanze;

-poveri, che arrivano a stento a fine mese e non si possono permettere il Rolex al polso. N.B.: a questa categoria non appartengono i "finti ricchi", ossia coloro che scelgono di mangiare pasta al burro per un mese solo per potersi permettere un capo griffato in più e che, caso strano, costituiscono il 99% dei criticoni in questo senso.

Ho momentaneamente esaurito i miei sproloqui riguardanti la "ridente" cittadina bagnata dal Sile, lamentele intese come sfoghi momentanei e da non prendere seriamente alle quali potrà seguire un secondo capitolo a seconda delle più o meno impellenti necessità o flussi d'odio scaturiti dalla mia persona.
Per ora sono solo stanco di tutto questo verde, non della natura ma di un partito del quale mi vergogno più di quanto potrei mai vergognarmi di me stesso intento a ballare Dirty Dancing, in mezzo ad una piazza, con un tutù rosa shocking indosso.

domenica 21 ottobre 2012

Autobus con le ali

Prendere gli aerei per me è sempre particolarmente stressante, quando viaggio con Ryanair (il 99% delle volte) lo diventa ancora di più. Non voglio autorappresentarmi come il grande viaggiatore che ha girato il mondo, che conosce tutto della vita, che ha il coraggio di mettersi uno zainone in spalla e di partire alla volta di un paese random all'altro capo del mondo alla ricerca di cose nuove per staccare un po' dal tran-tran di tutti i giorni. No. Io mi identificherei in un altro tipo di viaggiatore: quello mentale prima di tutto. Il viaggiatore mentale fa partire la sua mente ancora prima del corpo, perché questa viaggia gratis, a differenza del primo, ed è capace di vagare persino al di fuori dell'universo.

Prima di ricominciare a divagare, e trattare argomenti pseudocomplessi che non interessano a nessuno, torniamo alla Ryanair: lei, così conveniente e, allo stesso tempo, così approfittatrice, propone prezzi sempre e comunque più bassi se comparati a quelli delle altre, però tenta qualsiasi sotterfugio per recuperare la differenza, dall'assicurazione di viaggio ai profumi, dalle sigarette antifumo agli snack di dubbia qualità, il tutto corredato dai sorrisi delle hostess, non proprio emblemi di bellezza, e dalla trombetta irritante che suona ad atterraggio effettuato provocando spesso applausi imbarazzanti quasi sempre ad opera di passeggeri italiani o spagnoli.
Non fraintendetemi: penso che i direttori di marketing della compagnia siano dei geniacci, voglio dire, quale impresa, in tempi di crisi economica e monetaria così profonda, riesce a non risentirne o persino ad aumentare i profitti; tutti hanno bisogno di viaggiare, che sia per piacere, affari o necessità, e tutti prendono un aereo poiché ci sono distanze che non possono essere percorse altrimenti, essendo la compagnia meno cara riesce a trarre guadagni dove tutti gli altri fanno fatica.

Se ogni tanto spunta l'articolo nel giornale online di nicchia o si sparge la voce riguardanti finestrini riparati con il nastro adesivo, o il sorvolare per svariate decine di minuti aeroporti non di destinazione solo per fare rifornimento di carburante poiché sin dalla partenza questo non era sufficiente per affrontare la totalità del tragitto. Nonostante ciò, la compagnia ci tiene a comunicare che, dai suoi inizi, il numero di incidenti è pari a 0. Sarà forse questo il motivo per cui, ogni volta che salgo su di uno dei loro aerei, mi assale una paura incontrollabile causata dal terrore che potrei esserci io a bordo del primo volo sfigato, per statistica?

Prescindendo dal terrore ben celato dentro di me ed imperscrutabile sul mio viso -eccezion fatta per i momenti in cui si incappa nei maledetti vuoti d'aria- non potendo ancora vantare uno stipendio né l'indipendenza economica, mi accontento di servirmi di loro piuttosto che di compagnie aeree di alta qualità i cui prezzi sono, perlomeno, raddoppiati. Forse un giorno potrò persino contare sul mio jet personale: sognare, fino a prova contraria, resta gratis.